mercoledì 18 aprile 2012
Viaggio in Giappone: Tokyo - Guida di Asakusa
martedì 17 aprile 2012
Viaggio in Giappone: Tokyo

Tokyo 東京 è senza ombra di dubbio una delle metropoli più vive del globo, oltre ad esserne l'agglomerato urbano maggiormente esteso e popolato. Inizialmente chiamata Edo, la capitale del Giappone ha preso il nome di Tokyo (Capitale Orientale) con l'inizio del Periodo Meiji e ad oggi è composta da un'insieme di quartieri speciali, chiamati -ku 区, e da altre città inglobate. In particolare, i -ku sono 23 e formano il 'centro' della capitale; ognuno di questi 'municipi' ha una discreta autonomia, ma tutti devono comunque fare riferimento al Governo Metropolitano di Tokyo, con sede a Shinjuku.
La città ha molti centri di interesse culturale, architettonico, storico, sociale e pertanto richiede diversi giorni per far si che un turista riesca a visitare e vedere i luoghi più rilevanti. Spesso però il turista si sofferma sui luoghi classici e più famosi, tralasciando siti altrettanto interessanti che mostrano l'atmosfera della città e della sua cultura da un punto di vista più intimo.
La città detiene alcuni record che per i più possono sembrare bizzarri, come la stazione ferroviaria con la seconda estenzione al mondo e col maggior numero di passeggeri giornalieri (oltre 3 milioni!), ovvero la labirintica stazione di Shinjuku, o da poco la torre per le telecomunicazioni più alta d'Asia, la Tokyo Sky Tree (634 metri), che sarà aperta al pubblico entro l'estate, stando alle fonti giapponesi.
Come già detto poco fa, la città merita una visita di qualche giorno, anche perchè ogni zona ha una sua atmosfera tipica e non viverla, non lasciarsi rapire da questa significa fare un viaggio a metà.
In generale, a Tokyo non ci sono pericolo degni di nota (sempre che si mantenga un comportamento adeguato, altrimenti credo che qualsiasi posto sulla faccia della terra diventi pericoloso!), tranne per quanto riguarda madre natura. Infatti Tokyo, come tutto il Giappone tra l'altro, sorge su un'area altamente sismica, ma la città è tecnologicamente avanzatissima e anche i terremoti più forti non causano danni eccessivi. Ci si sposta in ogni angolo della città con la massima comodità grazie alla fitta rete ferroviaria e per mangiare ci sono ristoranti ovunque e a prezzi non esorbitanti. Gli abitanti in genere possono risultare un po' freddi, a volte anche un po' strambi, ma non vi preocupate, se avrete bisogno di aiuto si faranno in quattro; inoltre, se troverete chi parla un po' di inglese o ancora meglio italiano, si impegneranno al massimo per mostrarvi la loro conoscenza linguistica! Scordatevi i piccoli furti... per noi italiani viaggiare nella metropolitana senza l'ossessione di dover fare attenzione a borseggiatori di vario tipo è sbalorditivo!
Il periodo migliore per recarsi a Tokyo è la primavera, quando le pioggie sono meno costanti, le temperature miti e gli alberi di ciliegio in fiore; attenzione però al periodo che va dalla fine di aprile alla prima settimana di maggio: è il periodo della Golden Week, una settimana di vacanza durante la quale quasi tutti i giapponesi si mettono in viaggio. Le conseguenze sono alberghi pieni e prezzi di alta stagione. Anche l'autunno è un ottimo periodo, perchè come la primavera è abbastanza secco e non troppo freddo, con la natura che cambia colore, passando dal verde-giallastro dell'estate a un bellissimo color rosso. L'estate è calda e molto umida e i temporali improvvisi non sono rari.
Nei post successivi cercherò di introdurre le varie zone singolarmente, cercando anche di attingere alle mie esperienze per darvi dei consigli su quei luoghi lontani dai comuni itinerari turistici.
domenica 15 aprile 2012
Hanami, i Ciliegi in Fiore

Questa è una tradizione centenaria iniziata nel periodo Nara (710-794), quando si ammiravano i fiori di pruno, ma dal successivo periodo Heian (794-1185) prevale il gusto per i fiori di ciliegio. Su questo cambiamento è stata tramandata una storia molto commovente: all'interno del Palazzo Imperiale di Kyōto (l'antica capitale) vi erano due grandi alberi chiamati "Sakon no sakura" (左近の梅, il ciliegio di Sakon) e "Ukon no tachibana" (右近の橘, l'arancio di Ukon). Originariamente al posto dell'albero di ciliegio c'era piantato un pruno. Durante il regno dell'Imperatore Murakami (946-967) quest'albero venne distrutto da un incendio. Un servo dell'Imperatore ordinò a sua figlia di donare il suo pruno preferito per rimpiazzare quello bruciato. Per esprimere il dispiacere nel dover dar via il suo albero preferito la ragazza scrisse una poesia che commosse a tal punto l'Imperatore Murakami che questi decise di restituire l'albero alla fanciulla e di sostituirlo nel cortile del Palazzo Imperiale con un albero di ciliegio. Da qui in avanti il fiore del ciliegio sostituì come immagine di bellezza poetica il fiore del pruno e quando si scriveva "hana" si aveva in mente il "sakura".
Il termine Hanami col significato odierno appare per la prima volta del romanzo Genji Monogatari, scritto intorno all’anno 1000 dalla dama di corte Murasaki Shikibu. Proprio in questa epoca, chiamata periodo Heian, la corte imperiale era solita organizzare feste durante la fioritura dei ciliegi e i sakura diventarono uno dei temi centrali della poesia giapponese. Inizialmente era una tradizione che apparteneva esclusivamente alla nobiltà, ma dal periodo Ashikaga anche i samurai impararono ad apprezzarlo e nel periodo Edo (1604-1868) tutta la popolazione si recava nei parchi per banchettare e divertirsi. I samurai in particolare si sentirono strettamente legati al fiore di ciliegio per via di una frase contenuta in una famosa opera teatrale del XVIII secolo: "Hana wa sakuragi, hito wa bushi" (花は桜木人は武士), ovvero "tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il samurai".
E’ importante però considerare che non sempre la fioritura dei ciliegi è stata vista come un evento positivo e benevolo. Infatti, benché oggi la fioritura dei ciliegi è vista come un simbolo di purezza, esiste una tradizione popolare che collega i fiori di ciliegio a episodi di morti cruente. Questo aspetto oggi non è molto conosciuto poiché dal periodo Edo l’Hanami è al centro della vita dei giapponesi e questa tradizione ‘negativa’ si è un po’ persa.
Tradizionalmente, la città di origine dei sakura è Yoshino e sappiamo che anche l’Imperatrice Jito (645-702) vi si recava per ammirarli.
Il sakura è l’emblema del Mono no Aware, la consapevolezza che tutto prima o poi finirà, una qualità estetica che ha stimolato la cultura giapponese per secoli. Infatti il fiore di ciliegio fiorisce, si mostra in tutta la sua bellezza ma in pochi giorni appassisce e cade dal ramo.
L’Hanami ha un’antica tradizione e ancora oggi, durante i giorni in cui i ciliegi sono in fiore, le persone si recano nei parchi per godere della compagnia dei sakura mentre si mangia, si beve, si canta e ci si diverte all’ombra degli alberi fioriti. Immancabili durante questo evento sono birra, sakè e i dango, tipici dolci giapponesi.
L’Hanami non si svolge soltanto durante il giorno: infatti nei parchi più grandi, come lo Ueno kōen di Tōkyō o il castello di Himeji, vengono accese delle lanterne per permettere alle persone di trascorrere del tempo tra i sakura anche durante la notte; questo viene chiamato Yozakura, “sakura di notte”.
La tradizone dell’Hanami è molto importante, ma molto spesso viene considerata soltanto un modo per fare soldi o per divertirsi; a testimonianza di questa tendenza, c’è un famoso proverbio giapponese che recita “花より団子 hana yori dango”, che significa “i dango piuttosto che i fiori”, a dimostrazione che la gente è più interessata a bere e a mangiare piuttosto che ai fiori, quindi più ai beni materiali che all’estetica. Nonostante si sia persa parte della tradizione antica, rimane un momento molto importante per la vita dei giapponesi. Non è soltanto un occasione di svago dalle pressioni lavorative, ma anche un’ottima opportunità per trascorrere del tempo con amici o parenti.
Di recente sta aumentando la popolarità di questo evento in tutto il mondo, soprattutto in Italia, dove in diverse città sono stati appositamente piantati alberi di ciliegio giapponesi. Uno degli appuntamenti che da qualche anno attira tutti gli amanti della cultura nipponica è lo Hanami al Laghetto dell'Eur, a Roma. Una atmosfera molto rilassante circonda gli alberi in fiore e tutti coloro che vi si recano. E' difficile prevedere con esattezza il periodo di fioritura dei ciliegi, ma le ultime due settimane di marzo in genere sono il momento migliore per organizzare un pic-nic alternativo.
Il Tatuaggio Giapponese Irezumi: Storia, Significato e Simbologia

Non sappiamo esattamente quando sia iniziata la pratica dell’irezumi, ma si è concordi a datare la nascita del tatuaggio giapponese nel VI secolo a.C., epoca a cui risalgono le haniwa, statuine di terracotta rinvenute all’interno delle tombe Kofun nella regione del Kinki (che corrisponde approssimativamente all’odierno Kansai). Le haniwa mostrano evidenti segni di tatuaggio sul volto e, visto che la loro funzione era di accompagnare il defunto nell’aldilà, si pensa che i tatuaggi avessero un fine religioso. Ci sono anche teorie secondo le quali il tatuaggio giunse in Giappone dalle culture polinesiane.
Una delle più antiche certificazioni che abbiamo riguardo all’irezumi è contenuta nell’antologia imperiale Nihon Shoki (720 d.C.), in cui si narra che l’Imperatore Richū ordinò di tatuare di nero la zona vicina all’occhio destro della salma di un capo clan traditore della corte.
La pratica del tatuaggio come punizione venne introdotta in Giappone con molta probabilità dalla Cina dei Tang nel VII secolo, momento in cui il Giappone si aprì al continente e importò gran parte della cultura cinese. I tatuaggi punitivi erano dei marchi indelebili sulla pelle del criminale che lo isolavano dal resto della comunità e solitamente erano delle strisce nere sulle braccia o addirittura l’ideogramma di “cane” sulla fronte.
All’inizio del periodo Tokugawa il tatuaggio ebbe un grande impulso artistico collegato alla nascita della nuova cultura del divertimento e dei quartieri di piacere: in questo contesto i tatuaggi divennero un emblema dei sentimenti d’amore, anche tra prostitute e clienti, e nacque la pratica dell’irebokuro入れ黒子, “applicazione di un neo”: i due innamorati si tatuavano un punto nero sulla mano a metà strada tra l’attaccatura del pollice e il polso. In questo modo, quando si sarebbero stretti la mano, la punta del pollice dell’uno avrebbe toccato il neo tatuato dell’altra e viceversa.
Sempre collegato all’amore era il kishibori, un voto sottoforma di tatuaggio che consisteva nel tatuarsi il nome dell’amato/a insieme all’ideogramma di “vita”. Il tatuaggio poteva essere rimosso insieme al voto con l’applicazione di moxa e una gran dose di dolore. La pratica dell’irebokuro venne soppressa dal regime militare dei Tokugawa, che combatteva ogni tipo di individualità.
Fino al 1750 il tatuaggio cadde in disuso, ma da questo periodo i giapponesi ritrovarono un profondo interesse per i tatuaggi, interesse che si è tramandato fino ad oggi. L’opera di grandi artisti dell’epoca contribuì senza ombra di dubbio a questo processo: all’inizio del 1800 venne pubblicata “La nuova edizione illustrata del Suikoden”, arricchita da illustrazioni di Katsushika Hokusai. Questa opera si rifà a un’opera cinese, dove un gruppo di briganti-eroi si ribellano contro la corrotta burocrazia; alcuni dei personaggi avevano dei tatuaggi sul proprio corpo. Hokusai rappresentò in modo così vivido i tatuaggi di questi banditi-eroi che i giapponesi ne rimasero estasiati al punto da dar vita a una nuova diffusione dell’irezumi, che sembra sia stata causata proprio dalla voglia di emulare i personaggi del Suikoden.
Strano a dirsi, un altro fattore fondamentale per la nuova diffusione del tatuaggio fu la creazione del famoso corpo dei pompieri di Edo (l’attuale Tōkyō). Questi dovevano controllare costantemente la città contro gli incendi, un grosso problema della città, e grazie alla loro attività rappresentavano dei valori molto simili a quelli della cavalleria che anche i personaggi di Suikoden condividevano. Quindi, con l’intento di emulare questi eroi, anche i pompieri si fecero tatuare: i loro tatuaggi coprivano tutto il corpo, all’infuori di mani, testa e piedi, ed i temi rappresentati erano di solito simboli di acqua (ad esempio la carpa o il dragone) come buon auspicio per sottrarsi ai pericoli del lavoro. Successivamente la moda di tatuarsi si diffuse anche tra gli artigiani che, in base all’attività che svolgevano, sceglievano sontuosi tatuaggi per distinguersi. Lavorando spesso svestiti, gli artigiani lanciarono nuove mode con tatuaggi che sempre più spesso condividevano i temi con le stampe Ukiyo-e che raffiguravano scene dei quartieri di piacere.
Nel XIX secolo nacque l’iconografia dell’irezumi come la conosciamo oggi: venivano coperti tutta la schiena, i glutei fino a metà coscia, il petto non era tatuato nella parte centrale. Il tatuaggio assume così il valore di una vera e propria opera d’arte, un qualcosa di più della semplice rappresentazione degli artigiani. Ma proprio durante questo secolo il tatuaggio giapponese conobbe una nuova crisi, poiché veniva considerato un fenomeno non idoneo alla morale pubblica, e venne prescritto. L’apertura del paese all’Occidente fu un altro duro colpo per quest’arte: l’irezumi venne ancora una volta prescritto, ma stavolta perché si temeva che lo sfoggio dei costumi autoctoni potesse apparire ridicolo agli occidentali. Ma ironicamente i maestri dell’arte del tatuaggio, ormai disoccupati, trovarono una nuova ed inaspettata clientela: gli stranieri. Il grande Maestro Horichō tatuò, tra gli altri, importanti personaggi come il duca di York (fururo re Giorgio V) e il futuro Zar Nicola II.
Soltanto in seguito alla Seconda Guerra Mondiale il tatuaggio divenne legale, ma ormai il periodo di maggior splendore di questa arte era già un ricordo.
Il Maestro tatuatore utilizza vari tipi di hari, l’ago, che variano da punta a singolo ago a punta a trenta aghi. Sono fissati in un’impugnatura che può essere in legno, avorio o bambù e legati a questa con un sottile filo. Per le linee di contorno vengono usati due o tre aghi, per l’ombreggiatura invece viene utilizzata un’impugnatura più grande che monta fino a trenta hari. Tra i colori, il più importante è senza dubbio l’inchiostro nero India, detto sumi, impiegato per le linee di contorno. Altri colori largamente usati sono il rosso, l’indaco, il giallo e il verde; combinando questi colori si ottengono vari effetti di ombreggiatura.
Molte delle tecniche utilizzate nell’arte del tatuaggio sono identiche a quelle che venivano impiegate dagli autori di stampe: un sistema di linee tracciate e ampie zone di colore. Una volta deciso il soggetto da tatuare, vengono prima tracciate con un pennello le linee del disegno sul corpo, poi si ripassano queste linee con gli aghi, dando vita così al tatuaggio. Quando inizia il suo lavoro, il Maestro appoggia la sua mano sinistra sulla parte del corpo da tatuare, tenendo un pennello e tirando la pelle. La mano destra invece impugna gli aghi legati all’apposito manico. Con questo procedimento gli aghi, prima di bucare la pelle, passano attraverso i peli del pennello, bagnandosi di inchiostro. La pelle viene così punta con gli aghi intinti di colore a una velocità che può arrivare fino ai 120 colpi al minuto.
Il metodo giapponese è uno dei più complicati e controllati del mondo: queste caratteristiche non sono dovute soltanto alle tecniche ma anche al complesso cerimoniale a cui sia il Maestro che il cliente devono attenersi: tutto inizia con una visita del cliente a casa del Maestro, che può accettare e rifiutare la richiesta. Infatti i rifiuti sono molto diffusi perché i Maestri non vogliono assolutamente creare opere che possano rendere la loro arte inferiore.
Si dice anche che la pratica giapponese sia molto dolorosa: per tatuare alcune parti del corpo, come inguine, ascelle o pene, alcuni Maestri mischiavano della cocaina nel colore come anestetizzante.
Tutti i tatuaggi, più o meno, hanno un significato che rappresenta qualcosa per chi lo porta. Nei tatuaggi giapponesi purtroppo spesso l’effetto estetico finale colpisce più del suo vero significato. Il repertorio di immagini è abbastanza ristretto e l’iconografia si limita alla rappresentazione di elementi della natura, motivi religiosi, rappresentazione di eroi e figure del folklore popolare.
La flora è comunemente ristretta alla rappresentazione di peonie, aceri e sakura. Non si sa bene il vero significato di questi elementi, ma si pensa che abbiano soltanto un valore decorativo. Questo discorso non vale per il sakura, che in Giappone è il simbolo della vacuità in ogni genere di arte. Chi porta il fiore di ciliegio esprime la propria armonia con la natura delle cose. La sua pelle è fragile come i petali di ciliegio ed egli ne è consapevole.
Uno degli animali più rappresentato è la carpa; nel tatuaggio giapponese, la carpa che risale la cascata viene realizzata molto spesso sulla schiena. Altro tema popolare è il drago, che rappresenta gli opposti dell’acqua e del fuoco e si pone come una sorta di conciliazione di opposti, lo yin e lo yang, la cui sola esistenza simboleggia un qualcosa di completo. Il drago viene realizzato in varie posizioni (supino, in volo) che simboleggiano diversi significati, come energia, metamorfosi…
La religione è una parte integrante dell’irezumi. Le raffigurazioni religiose includono preghiere in sanscrito, cinese o giapponese e appaiono sulla schiena. Bisogna considerare che non troveremo mai rappresentata una grande divinità come il Buddha, ma sempre kami dello Shintoismo, entità minori come boddhisattva o i due Niō (guardiani forti e spaventosi che allontanano le entità maligne). Chi si tatua i Niō desidera essere proprio come loro, potente e difensore della fede. Sempre in ambito religioso, altro tema molto ricorrente è Kannon.
Oltre ai già citati personaggi del Suikoden, nel tatuaggio giapponese c’è un altro tema del folklore molto ricorrente: Kintarō, un eroe della tradizione che viene quasi sempre raffigurato insieme a una carpa. Entrambi simboleggiano una grande forza e Kintarō, molto forte benché piccolo di statura, è molto popolare tra i giapponesi, che vi si rispecchiano.
E’ importante considerare sempre che una delle maggiori fonti d’ispirazione per l’irezumi è il mondo dell’Ukiyo-e.
Uno dei più grandi Maestri giapponesi ancora in vita è Horiyoshi III, nato nel 1946 e che vanta un’innumerevole serie di pregiati lavori. Il suo nome di battesimo è Yoshihito Nakano, ma divenne Horiyoshi III grazie a Horiyoshi II, il figlio del grande Maestro Muramatsu Yoshitsugu, detto Shodai Horiyoshi, forse il più grande tatuatore dell’epoca contemporanea. Horiyoshi è un titolo onorifico che rimanda subito al mondo dei tatuaggi, dove hori significa ‘incidere’, come nella parola horimono.
Il suo interesse per l’irezumi nacque proprio dopo aver visto uno yakuza completamente tatuato. I lavori sono realizzati a libero gusto del Maestro e quindi il cliente non ha molta voce in capitolo, possono arrivare a costare migliaia di euro e richiedono anche diversi anni per essere completati.
Fortunatamente Horiyoshi III ha un erede, il figlio Kazuyoshi Nakano, che diventerà Horiyoshi IV, ma ancora è soltanto un apprendista. Se ci si reca a Tōkyō e si vogliono ammirare alcuni lavori di Horiyoshi III, un luogo da visitare assolutamente è il “Museo del Tatuaggio” di Yokohama.
Oggi il tatuaggio in Giappone è spesso associato all’idea di yakuza: sono proprio i membri della cosiddetta “mafia gialla” a portare grandi tatuaggi su tutto il corpo, quasi come segno di riconoscimento. Per questo motivo, nonostante molti giovani si fanno tatuare solo per gusto, in molti bagni pubblici o terme giapponesi non è consentito l’ingresso a persone tatuate.
Purtroppo l’antica arte dell’irezumi si sta via via estinguendo, poiché i maestri che conoscono le antiche tecniche stanno scomparendo e i giovani preferiscono utilizzare macchinari moderni; ben presto i pochi maestri rimasti moriranno e l’arte dell’irezumi si estinguerà per sempre.